Autoritratto di Marco Orsucci

Aprile 2015

Marco Orsucci si racconta così prima di rispondere alle nostre domande: “Sono nato ‘sfollato’ nel ’44 ad Altopascio da famiglia livornese. Figlio di orafo, probabilmente il mio destino sarebbe stato quello di intraprendere il mestiere di mio padre. La ventura (non posso dire fortuna) è stata quella di realizzare, da giovanissimo, piccole sculture in creta che hanno suscitato un coro di “ma quanto è bravo! Ma come è creativo! Mandiamolo a studiare a Firenze” e mi sono salvato da un istituto per geometri. A Firenze liceo artistico e accademia: al liceo ho avuto la fortuna di incappare in personaggi come Piero Bigongiari e Quinto Ghermandi che Dio solo sa cosa ci facessero lì.

Bigongiari mi ha iniziato alla buona letteratura e Ghermandi, che allora era un mostro sacro dell’arte contemporanea, mi ha fatto capire che arte non era solo quella che si insegnava all’accademia. Finita l’accademia alla scuola di Oscar Gallo, sono stato richiesto come assistente dallo stesso Ghermandi e lì è cominciata la mia storia di insegnante che è durata fino a qualche anno fa. Il mio percorso come artista non era partito male: la Biennale del Fiorino a Firenze, la Biennale del Bronzetto a Padova, varie mostre collettive e personali, un gallerista a Bologna e un paio di critici interessati alla mia produzione. Poi venne la crisi: smisi di produrre e mandai a quel paese critici e gallerista. Naturalmente la reazione di quelle persone che avevano speso energie su di me fu una minaccia: “Non ti ripresentare mai più nell’ambiente dell’arte perché verrai fatto a fette!”. Avevo ventisei anni, ora ne ho settanta… posso rischiare.
Comunque, a parte l’arte messa da parte, ho sempre vissuto di scultura; per più di trent’anni ho partecipato alla messa in scena di almeno duecento opere liriche per i teatri di tutto il mondo: Tokio, Parigi, Houston, Madrid, Atene, e in Italia il Comunale di Firenze, il Carlo Felice di Genova, il Comunale di Bologna, il Regio di Torino, il San Carlo di Napoli, La Fenice di Venezia e così via. La continua attività come scultore di teatro ha fatto di me un grande conoscitore dei materiali più disparati e mi ha dato soprattutto la capacità di risolvere i problemi tecnici più difficili.
Nel 2011 ho fatto la mia prima personale a cui sono seguite numerose altre mostre fra collettive e personali”

Quando ti sei accorto di voler essere un artista?
Francamente ho accettato l’idea molto tardi. Ho sempre vissuto di scultura, ma la mattina la insegnavo a scuola, il pomeriggio e spesso anche la sera dopo cena facevo sculture per il teatro; non mi rimaneva molto tempo per produrre arte. Bisogna anche considerare che fino all’inizio di questo secolo la mia produzione era considerata, dai più, un genere ormai obsoleto e da non prendere in considerazione: “Ma scherziamo? Questo fa ancora il figurativo!”. Poi qualcosa è cambiato: si è cominciato a dare un maggior valore alla capacità di usare le mani oltre che la lingua ed è nato un maggior interesse nei confronti del mio modo di lavorare.

Quali sono i passaggi fondamentali della tua evoluzione artistica?
L’essere stato allievo e poi assistente di Quinto Ghermandi e l’Accademia alla scuola di Oscar Gallo mi hanno dato un base tecnica e culturale accettabile, anche se poi col cuore ho seguito più il secondo che il primo.

Hai dei modelli a cui ti sei ispirato e perchè?
I modelli li abbiamo tutti sotto gli occhi continuamente e da sempre: non è possibile stabilire quali e quanti mi abbiano influenzato. Una cosa è certa: sono curioso, e quindi tutto ciò che mi si para davanti e mi procura un’emozione entra dentro e lavora. Noi siamo la somma e il risultato di tutto ciò che vediamo e proviamo.

Cosa pensi del mercato dell’arte, quali sono i limiti e quali le potenzialità?
Ciò che mi sorprende è l’assoluta mancanza di regole che può anche sembrare un limite, ma che lascia delle possibilità anche a chi obiettivamente non ne avrebbe.

Se tu potessi suggerire un’idea per valorizzare gli artisti contemporanei cosa suggeriresti?
Fu Beethoven a ipotizzare una banca dell’arte a cui un artista poteva attingere il necessario per creare in tranquillità. Era naturalmente un’utopia, ma un aiutino da parte delle istituzioni con qualche mostra gratuita sarebbe buona cosa per liberarsi dalla gogna dei galleristi “affittacamere”.

Qual è l’opera tua o di altri a cui sei più legato e perché?
Direi tutta la produzione di Donatello per la facilità con cui risolveva i problemi. Era un artista sereno, sicuro, senza dubbi. Anche Rodin, per i motivi opposti. Per ciò che riguarda la mia produzione è probabilmente il Cristo dell’abbandono nel Santuario di Montenero. È un’opera che ho realizzato in legno all’età di diciannove anni ed è considerata da molti il mio capolavoro; vale a dire che sarei potuto morire a quell’età. Mi diverte il fatto che sia tutto circondato di ex-voto, perchè sembra che faccia miracoli. Se la sapessero tutta…
Un’altra opera a cui sono affezionato è il Pan di Poggio Valicaia, un giovane fauno che nasce da una ceppa di quercia e suona il doppio flauto.

Se potessi scegliere, dove vorresti esporre e perché e in quale periodo dell’anno?
Penso che nessuno risponderebbe in brutte gallerie poco frequentate, quindi nemmeno io. Mi piacerebbe esporre oltre che a Firenze, in altre città della Toscana: Siena, Arezzo, Lucca e − perchè no? − Livorno visto che nemo propheta in patria.

Secondo te si può vivere di arte in Italia?
Solo la Tosca è vissuta d’arte e sappiamo tutti la fine che ha fatto… All’infuori di alcuni mostri sacri, l’arte in Italia può essere solo un secondo mestiere. Per ciò che mi riguarda, la vendita di qualche scultura è servita solo a finanziare la realizzazione di altre sculture e non certo a farmi la villa a Settignano. Ammetto che ho sempre vissuto di scultura, soprattutto come realizzatore scenografo, ma dovendo dimenticare l’arte e basando tutto sul mestiere. Realizzare grandi sculture per il teatro mi ha consentito di sbarcare il lunario, ma ha solo contribuito alla gloria dei vari scenografi per cui le ho realizzate.

Nel processo di crescita e nel tentativo di affermazione e diffusione del proprio lavoro quali sono le difficoltà che, più spesso, incontra un artista?
Lo scarso interesse da parte della maggioranza degli addetti ai lavori se uno non è già più che affermato.

Cosa potrebbe essere migliorato nella comunicazione dell’arte?
La chiarezza, e quando dico chiarezza intendo comprensibilità. Sono annoiato dall’uso di terminologie comprensibili solo a pochi addetti ai lavori. Il critico dovrebbe oltre che criticare e spesso stroncare, far capire il perché di un certo operare, e non mi si venga a parlare della necessità dell’uso di termini tecnici irrinunciabili: il pubblico vuole sopratutto capire e non essere sopraffatto dall’aulicità delle parole usate.

Puoi indicarci un pregio e un difetto della critica d’arte?
Un pregio può essere quello di spiegare all’artista perchè ha fatto determinate scelte, il difetto è che molti critici parlano di te per dimostrare quanto sono bravi a farlo. Il compito di un critico dovrebbe essere quello di far da tramite tra l’artista e il pubblico, ma non succede spesso.

Cosa vorresti che i lettori conoscessero di te e della tua arte?
Gli aspetti migliori, ma non so neanch’io quali siano.

Infine, che domanda vorresti che ti venisse rivolta durante un’intervista?
Quella a cui posso rispondere facendo un figurone.

Dal vero sensibile al vero pensato

Dino Pasquali
Dicembre 2012

Per nascita, per studi, per convinzione poetica e – inevitabilmente – per umane ragioni legato in maniera più o meno rilevabile alle contingenze di un’epoca, Marco Orsucci appartiene alla categoria dei creatori maturati e maturandi su sé stessi; categoria, non proprio dilagante nella civiltà di massa, ma neppure estinta, di coloro i quali ritengono che essere artisti innanzi tutto sia, anzi è, sinonimo di duro lavoro e disciplina.
Premesso anche che per lui, come non per moltissimi ancora, la scultura è fondamentalmente un’arte del disegno – ciò viene confermato dalla magistralità di tante sue soluzioni anatomiche -, Orsucci non ha dunque seguito l’ondivago alternarsi delle mode e degli ismi, fedele al convincimento che l’arte non abbia senso d’esistere se è unicamente uno strumento di piacere, se non si confronta con lo spirito e la cultura del luogo e del tempo nei quali si pone in essere, se non serve a spronare pensieri che non favoriscano la ricerca di quanto può rendere migliore, soprattutto spiritualmente, la consistenza dell’esserci (fuori dall’utopica pretesa di cambiarne l’essenza).

Nato a Livorno e accademicamente formatosi in Firenze, da sempre Orsucci tesaurizza (senza che ciò significhi localismo) suggerimenti e suggestioni culturali che a lui provengono da determinate, storiche note distintive della civiltà toscana. A parte ciò, egli si tende, esteticamente parlando, tra coté metafisico e coté fisico, tra liricità e criticità (nella fattispecie ricorrendo all’arma antifrastica di un’ironia contenuta), e si tende pure tra altre “coppie”: contenuto e forma, uomo e poeta (ovvero artista), vita e cultura. Si tratta di dualità per le quali più spesso vale di norma la contrapposizione anziché la composizione, ovvero si tratta di configurazioni spirituali i cui elementi sono soggetti maggiormente alla dissociazione piuttosto che a fondersi gli uni negli altri. Ma proprio dalle tensioni può e sa cavare vantaggio una vis imaginativa del calibro di quella che Orsucci dimostra. Del quale figuratore, tutt’altro che mimetico e propenso in più di un caso al difforme, i pensieri e le idee che egli da decenni esprime con il medium della scultura, sono pervasi da dati ambientali e dati sottesi a precipue vicende esistenziali, tanto sue quanto altrui. Ad essere, in materia d’attività estetica, dei patiti dell’idealismo, cui l’intuizionismo è riconducibile, si può arrivare al paradosso di sostenere che i Grandi della pittura e della scultura sarebbero stati tali anche senza le mani, e che, di conseguenza, già nella mente dell’autore l’opera d’arte è esaustiva, ovvero esauriente, in ogni suo comparto. Certo, è difficile trovare chi resta insonne tutta una notte nella speranza di estrarre dal pozzo delle meningi l’agognato fastigio. Ma v’è ancora, Orsucci insegna, chi, fuori dal voler snobbare come romantici i concetti d’ispirazione, spontaneità, fantasia ed ulteriori doti (che alcuni vorrebbero calate metafisicamente dall’alto), ama costruire un’opera poetica (e ciò è l’opera d’arte) pezzo per pezzo con l’acribia, ovvero precisione meticolosa, di quell’artigiano che precede l’essere artista. E non parliamo, in epoca di sesso, droga e rock, di quanti per creare, per illuminarsi d’ispirazione, chiedono aiuto all’oscuro demone della sregolatezza.
Si riceve una sorta di fantasmagoria da un colpo d’occhio sull’insieme del repertorio di Orsucci, vuoi per quantità, vuoi per qualità, genere e diversità. Ne spicca la vocazione per una specie d’indagine, classicistica ed espressionistica al tempo stesso, del corpo umano o parte di esso, ora nudo, ora coperto da indumenti, ora mascherato e con atteggiamenti e dinamicità di chiara connotazione simbolica. Inoltre c’è un lungo periodo contrassegnato da sculture – anche grandi fino al gigantesco – destinate ad insigni scenografi e ad ancora più insigni teatri. E non si dimentichi il ricorso a materie , quanto meno fuor dal consueto. Nel suo fare non scorgerei un impulso verso l’astrazione, sibbene verso un discordare dall’oggettività delle forme rappresentate. Che d’altronde rinviano ad una marcata compartecipazione emotiva, cioè infusione simpatica e godimento estetico nella trascrizione di un vero sensibile in un vero pensato. E dal moto interiore, che compendia vari alvei culturali, non deriva una (una dyskrasìa) tra passato e presente, bensì connubio dei due fattori realizzato con rara perizia.
Talvolta il referente è che esiste, verbigrazia un arlecchino (peraltro sotteso all’ ossia ad un momento che viene prima del giudizio mentale); altra volta il referente indica invece inesistente, per esempio qualche figlia di Nereo che vale un inno alla corporea bellezza muliebre. In ogni caso le raffigurazioni operate da Orsucci si permeano di fatti rivissuti nella coscienza e trasvalutati nella cifra di una non comune espressione estetico-poetica.
Con la loro complessità, per tecniche, per forma dei significanti, per materiali fisici e materiali culturali utilizzati, le opere di Marco Orsucci hanno ragguardevole attitudine a coinvolgere sul piano emotivo, a portare il fruitore (quello che secondo passati enunciati ermeneutici si chiamava o riguardante od osservatore) a immedesimarsi in esse. Ciò investe anche chi scrive, che qui alla tenace creazione altrui ha rivolto le arbitrarie postille di un suo pensare, il quale è poi elaborazione di più sensazioni. Detto fruitore saprà opporvi le proprie, tanto più che dalla differenza delle opinioni nasce l’arricchimento cognitivo.

Equilibri d’arte tra ironia e sogno

Ugo Barlozzetti

Per un maestro come Marco Orsucci, che ha contribuito alla realizzazione di opere teatrali di grande importanza, l’emozione – o meglio l’empatia – in quella che si definisce specificamente la “fruizione” (il vedere, l’osservare partecipato del pubblico) appare un’esigenza profondamente sentita.
Così il rapporto con temi e linguaggi visivi del mondo classico o della loro versione rinascimentale, è fondante per il fare, ove i nuovi materiali, sopratutto la resina, permettono di recuperare tecniche antiche per nuove esperienze.

La figura è al centro della ricerca – né poteva essere diversamente – e la qualità dell’esecuzione è un dato prezioso e funzionale, per rivelare quanto ci sia di vissuto, trasformato in visione, sogno o soglia per la dimensione del fantasticare, nel gioco, talvolta ironico, della stessa citazione.
In tal modo le forme si manifestano in equilibri al limite del paradosso,rese credibili per la sapienza, ormai rarissima, dell’impianto anatomico e per la suggestione offerta dalla fascinazione del mondo della natura, di cui si suggerisce la scoperta.
Né manca in tutto ciò anche l’emergere del gusto per un’ironia, che in qualche caso si dichiara clamorosamente.
La figura, nel suo nuovo statuto, sa cogliere istanze da “realismo magico”, come “La barchetta dei sogni”, nelle sue diverse versioni.
La metafora della precarietà, nuovissima icona della dea Fortuna, nella declinazione umanistica, diviene un Giocoliere -Arlecchino, sviluppando l’immenso tema della maschera.
Le sdutte, affascinanti figure femminili, eleganti nereidi, ribaltano la bellezza muliebre, oggi involgarita nella “donna oggetto”,in una moderna donna, altra metà del cielo.
Da questo si evince una straordinaria capacità di superare il virtuosismo nella conoscenza “diretta” di capolavori “manipolati” poi in sede di attività scenografica, utilizzando superfici, ritmi compositivi, modellati stessi, secondo codici che definiscono il nesso tra luce e spazio, con un segno sempre ben distinguibile dalla complessa “nemesi” ai respiranti ritratti.

La produzione di Marco Orsucci si inserisce in modo originale nell’arte della seconda metà del xx° secolo, perché appartiene sì a quell’ambiente che non ha rinunciato a dare nell’opera, e non nella sua esegesi, il significato o i significati o l’ambiguità implicita nell’empatia stessa,ma restaura le funzioni dei significanti, riuscendo soprattutto a privilegiare, con misura autenticamente classica,e nello stesso tempo “contemporanea”, le confessioni del proprio esistere nella storia, del proprio vissuto, in un risultato di leggerezza e poesia, a volte epica a volte intensamente elegiaca, ma sempre umanamente vera.